martedì 8 maggio 2012

Ansaldo: "Perché proprio io?
Ero nel mirino e non lo sapevo"

La vittima, Roberto Adinolfi (59 anni), amministratore di Ansaldo Nucleare
 

Il manager interrogato dopo l'intervento: "Li ho visti,
ho preso il numero di targa"

MASSIMO NUMA
inviato a genova
Francesco, 20 anni, il secondogenito di Roberto Adinolfi, lo ha abbracciato. Gli hanno appena detto che il papà è fuori pericolo, che la prognosi è di 45 giorni. Il manager è ricoverato nella zona rossa del reparto di ortopedia e chirurgia d’urgenza del San Martino. Quarto piano.

È in una stanza sorvegliata da un nugolo di carabinieri e di investigatori dell'Antiterrorismo. La moglie lo ha raggiunto subito dopo l’agguato, neanche il tempo di indossare una giacca, cammina veloce dei corridoi del monoblocco, con un golf leggero e i pantaloni. Occhi pieni di lacrime, le mani che tormentano un fazzoletto. Francesco è stato il primo a soccorrere l’ingegnere dell’Ansaldo, padre di tre figli, aiutato dal portiere dello stabile di via Montello 19, Salvatore Sannino.

Qui, in ospedale, dopo l’operazione e la terapia nella camera iperbarica, gli inquirenti cercano di ricostruire gli scenari dell’agguato. Indagini a 360 gradi e tantissima cautela, prima di indicare la pista privilegiata da seguire. Ma la traccia potrebbe essere cercata forse nella centrale nucleare di Trino Vercellese, ferma da decenni.

Ansaldo si occupa dello smantellamento degli impianti, sfiorando anche la controversa questione del trattamento delle scorie, da alcuni mesi trasferite, con treni speciali, in un sito localizzato nel Nord della Francia, l’unico impianto europeo in grado di stoccarle e di renderle inerti. Questo è dunque l’unico filo rosso (per ora) che unisce la figura di Adinolfi alla galassia eco-terrorista.

Chi ha gestito e pianificato l’agguato al manager non ha rivendicato l’azione e lo stesso Adinolfi, nel corso dei primi confronti, subito dopo il ferimento ma anche dopo, nel tardo pomeriggio, superato il primo choc, ribadisce «di non aver mai subito minacce di alcun tipo». Né di «essersi mai accorto di essere seguito». Né lui, né la sua famiglia.

Il manager non ha mai perso lucidità. Ferito, ha chiamato la moglie e il chirurgo, Federico Santolini che è un suo amico personale, che l’avrebbe poi operato poche ore dopo: «Sono uscito di casa, ho superato il cancello, ho visto due persone strane, mi sono avvicinato alla mia auto e ho sentito lo sparo». Esploso dalla Tokarev calibro 7,62, costruita una quarantina d’anni fa in Urss. Un pezzo dell’eredità degli ex br, degli ex Prima Linea, rivisti dopo decenni nel corso degli scontri di piazza? Non ci sono conferme ufficiali. Vecchie armi, dimenticate per decenni in nascondigli sicuri, localizzati - pare - anche tra Liguria e Toscana, persi nei paesi dell'Appennino.

Adinolfi, da terra, è riuscito a segnare i numeri di targa dello scooter nero, Yamaha T-Max, rubato due mesi fa nel quartiere di Marassi, e tenuto al coperto sino al momento dell’azione. Niente polvere, nientre tracce della pioggia degli ultimi giorni e lo scudo anteriore lavato di recente. Gli investigatori della Polizia Scientifica lo stanno esaminando, cercano le impronte.

I due avrebbero lasciato un altro scooter, nello spazio vicino ai contenitori dei rifiuti, dove - alle 8 di una mattina qualsiasi - non c’è mai un posto libero.Il racconto dell’ingegnere, sentito anche dal pm Silvio Franz, è preciso, utile per ricostruire nel dettaglio tutte le fasi dell’agguato: «Avevano giubotti scuri, caschi integrali, forse guanti». La Tokarev è una semi-automatica e, sull’asfalto di via Montello 19, l’unico bossolo recuperato è lì, nel piccolo cerchio disegnato dal gesso bianco, a 30 centimetri dall’altro cerchio, quello che delimita le tracce di sangue. L’azione è durata, complessivamente, alcuni minuti, compreso l’appostamento che non è sfuggito a un paio di testimoni.

Uno, il portiere del condominio, Salvatore Sannino, spiega di aver «sentito gli spari, sembravano petardi, ho subito soccorso l’ingegnere che era caduto a terra, ho chiamato l’ambulanza...». Ma Giovanni S., un residente della zona, afferma: «Ho visto bene i due sullo scooter, snelli, vestiti di scuro. Erano fermi qualche metro prima del cancello, con il motore acceso. Come se aspettassero qualcuno».

Il numero di telefono e l’indirizzo della famiglia Adinolfi è sulle Pagine Bianche. E poi il manager, da anni e anni, non ha mai cambiato abitudini: «Sono uscito, come sempre, con la mia valigetta, in mano avevo le chiavi dell’auto e il cellulare». Gesti mille volte ripetuti, in modo meccanico. Un agguato facile, senza ostacoli. Il 19 è nel tratto a doppio senso di via Montello, quartiere Manin, in collina. Il centro è a poca distanza, con innumerevoli via di fuga.

In attesa della rivendicazione, gli investigatori gelano le speranze di una facile e rapida soluzione: «Indagine lunga, molto complessa».

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